By Renato Palazzi
25.09.2017 / Il sole 24 Ore
Cos’è, esattamente, Nachlass, il lavoro che i Rimini Protokoll hanno presentato a Roma, a Short Theatre e poi a Romaeuropa, e che sarà in gennaio al Piccolo di Milano? Non è, propriamente, uno spettacolo, né una performance, ma anche la definizione di installazione sembra limitante. È piuttosto un sofisticato apparato di congedo, una visita guidata - ovattata e squassante - nei sentimenti umani, quei sentimenti che risultano straordinariamente acuiti in chi abbia acquisito una definitiva percezione dell’imminenza della propria fine.
Il pubblico entra, a turno, in una struttura allestita di volta in volta nei teatri o in altri spazi che la ospitano, una specie di anticamera ovale dalle pareti di legno chiaro, simile alla sala d’aspetto di una banca o al corridoio di un albergo, su cui si affacciano otto porte munite di pannelli scorrevoli: a fianco di ognuna c’è una targhetta luminosa col nome del “titolare” della stanzetta cui la porta conduce. Sopra, dei numeri digitali scandiscono i secondi che mancano al momento in cui la stanzetta si aprirà a un nuovo gruppetto di visitatori. Ciascuna di queste stanzette è un concentrato di ricordi, una testimonianza materiale del carattere, dei gusti, delle propensioni della persona di cui raccoglie le tracce. Dico tracce, perché le persone reali non sono fisicamente presenti. Il sottotitolo di Nachlass è, non a caso, Pièces sans personnes, nel senso che la sua composizione non prevede l’intervento di figure in carne e ossa, ma anche, in un’accezione più radicale, che quelle persone probabilmente non esistono più, che nel frattempo potrebbero essere tutte morte. Gli ideatori del progetto, Stefan Kaegi e Dominic Huber, rispettivamente regista e scenografo – i Rimini Protokoll non sono una compagnia, ma un collettivo di creatori di esperienze partecipative anomale e spiazzanti - hanno infatti riunito in questi ambienti ciò che resta di otto soggetti di varia cultura e personalità che, per ragioni di età, di malattie o di scelte esistenziali che li inducono a ricorrere al suicidio assistito – si trovano in una fase terminale della propria vita, alle prese col lascito di pensieri, parole, considerazioni con cui immaginano di lasciare un segno grande o piccolo di sé.
A raccontare le persone sono in primo luogo i loro oggetti, una scrivania da ufficio, un tavolino coperto di foto, un mucchio di scatoloni pieni di documenti. Ci sono poi le voci registrate che prevedono, spiegano, tracciano bilanci di speranze ed errori. In due soli casi vediamo anche le immagini di chi sta parlando: un turco che segue direttamente la costruzione della propria bara, ne pianifica la spedizione, prova il sudario, e un padre affetto da una patologia devastante che insieme a uno straziante addio alla figlia le lascia un video nel quale sta pescando, lo sport che li appassionava entrambi. La drammaturgia mescola accortamente atteggiamenti, toni, umori diversi. C’è la cantante mancata che lascia ai nipoti la tenerissima esecuzione della canzone con cui fu applaudita a dodici anni. C’è l’ex-economista che rimpiange la mancata opposizione al nazismo, e con la moglie ha deciso di farla finita in una clinica svizzera. C’è l’anziana diplomatica che ha creato una fondazione per aiutare gli artisti africani, il gerontologo che ha disposto cosa fare di lui se il cervello verrà meno. C’è il base jumper pronto a tutto, e la vecchia signora in casa di riposo, convinta che da morti si diventi più belli. Entrare in queste stanzette è un’esperienza intensissima, che ora turba, ora angoscia, o lascia invece stranamente rasserenati. Sempre, però, impone un confronto con l’idea della propria morte e del modo di affrontarla.